Deserti con turbanti (caravan e camper – luglio 2007)

Nel 2007 il mensile Caravan e Camper ha pubblicato il mio viaggio in Libia, da Tripoli fino a Ghat, passando per deserti del Maghadgat e dell’Akakus.

Orizzonti sconfinati e indefinibili, luce tagliente, giornate roventi e notti gelate, sconfinate e piatte distese di sabbia eppoi alte dune, cordigliere di pietra e laghi dai toni astratti: il deserto, insomma, è più un luogo dell’anima che un posto del globo. Non solo. Archeologia latina, civiltà berbera e tuareg sono disseminate sul tragitto per dare maggiore ricchezza all’anima stessa. Da ricordare, poi: ogni località è un’oasi. Il viaggio è indimenticabile e comincia quasi sempre proprio da dove antichi greci o romani lasciarono il segno del loro soggiorno espansivo. Il viaggio che stiamo per iniziare, però, non va preso a cuor leggero. La Libia è un paese stabile, ma complicato e per questo le autorità s’impegnano a renderlo sicuro con la loro continua assistenza. Lungo il percorso s’incontrano numerosi posti di polizia, non tanto per i controlli, ma per essere sempre pronti a risolvere i momenti di difficoltà, Il viaggio, insomma, non può essere affidato a una iniziativa personale. Per viverlo nel modo più gradevole e divertente è bene affidarsi a un’organizzazione d’esperti. Iniziamolo rispettando questa premessa.


Il viaggio inizia
Il camper, ma anche la caravan attrezzata per essere autosufficiente, sono senz’altro gli strumenti più adatti per vivere appieno l’emozione dei deserti libici. Più si scende verso sud, più le strutture alberghiere diventano rare e spartane. Non mancano, invece, zone attrezzate per la sosta, con acqua e spesso anche elettricità, nate proprio per soddisfare un trend costante e in crescita che vede sempre più turisti itineranti. UnPaese sicuro, intendiamoci, con un grande e, per certi versi sorprendente, rispetto per il visitatore. Qui, c’è petrolio, ricchezza, tecnologia, auto nuove, computer, televisori al plasma. In Libia, l’Islam è una realtà moderata in uno stato laico. Le donne non hanno veli integrali, le vetrine sono ricche di vestiti alla moda, anche occidentale, e ogni città, anche la più sperduta nel deserto, ha il suo “Internet Point” ad alta velocità. Nei negozi non si tratta, al massimo si chiede lo sconto, come fareste dall’esercente sotto casa vostra. Non bisogna illudersi, comunque: organizzare un viaggio “fai da te” è molto complesso, per non dire impossibile. L’itinerario che vi proponiamo in queste pagine è quello che abbiamo sperimentato personalmente con l’organizzazione dei “Viaggi di Caravan e Camper” by Girocamper.

Si parte. La splendida Tunisi è l’estrema periferia del Sahara, ma si scende più a sud sfiorando laghi salati, “jabel” isolati, finché non appare Sabrata, un impatto improvviso con siti preziosi di ricordi dell’antica Roma e un teatro che fu classificato fra i più belli dell’antichità. Meravigliosi mosaici si trovano esposti nel Museo locale. Sabrata è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità e merita una serena sosta. Nella vicina Nalut cambia tutto. La località è berbera in ogni aspetto della sua cultura, ancora praticata, e sottolineata dal suo intatto “ksar”, uno di quegli edifici civili che nel mondo arabo sono più espressione della forza, della potenza, piuttosto che della vita civile: si tratta di un granaio, dove venivano conservati cereali, datteri e olio, utilizzato fino alla metà del secolo scorso. Sulla strada, si sosta alla verdissima oasi di Derj, per arrivare dopo solo 379 chilometri a Ghadames. La città che ci si para davanti, ora, è, giustamente, considerata una delle perle del Sahara. Di certo, fra le tante sorprese architettoniche e naturali offerte da questo viaggio, Ghadames, al confine con l’Algeria, tocca i vertici più elevati. Si divide in Città Vecchia e Città Nuova. Una leggenda affida l’origine di Ghadames al nome della principale sorgente d’acqua della zona: Ain Al-Faras, la Fonte della Cavalla. Si dice che la cavalla del conquistatore arabo Ocba Ben Nafa nel VII secolo, spostando con le zampe una zolla sabbiosa sulla superficie del terreno, fece affiorare il prezioso liquido, principale risorsa idrica della zona. Per cominciare, e non se ne abbiano a male i referenti dell’Atlante marocchino, questa è veramente la culla della cultura berbera. In questa località si sono sempre svolti, nel passato, gli scambi economici e sociali fra tutte le popolazioni sahariane e africane. La Città Vecchia, cosparsa di piazze, era divisa in due quartieri, abitati rispettivamente da arabi e berberi. Oggi, sebbene perfettamente conservata, non ci abita più nessuno.

Sabha, capitale del Fezzan
Il viaggio svolta verso est all’interno del Paese. Attraversiamo il deserto di Hamadalh el-Hamra. Percorso dritto, paesaggio piatto e cosparso di pietre senza dune e rilievi dove si possono incontrare gruppi di cammelli pascolanti. Arrivati ad Al Shuawarit si punta decisamente verso sud. Qualche rilievo interrompe la visuale e avvicina l’orizzonte. È dopo Brak che si scopre quel mondo per cui si è scelto di venire in Libia. Finalmente dune di sabbia e qualche palmeto. Procedendo lungo il più settentrionale uadi (vallata) del Fezzan si punta a Sabha, che si annuncia in lontananza con la morbidezza della verde oasi, nella cui prossimità sorge la città moderna. È la capitale del Fezzan, meta preferita per chi intende compiere escursioni e viaggi nel Sahara. La città vive intorno all’alberata shari Jamal Abdul Nasser, che conduce nel centro, e alla parallela shari Mohammed Megharief, sulle quali si allineano moderni palazzi occupati o da alberghi o dalle sedi d’importanti società. Il tessuto urbano, comunque, è composto da qualche villa e quartieri di casupole fatiscenti, senza più traccia dell’antico nucleo di caratteristici villaggi. A Sabha, Muhammar Gheddafi ha frequentato le scuole superiori e ha cominciato la sua vicenda rivoluzionaria. Ormai siamo in pieno Erg Awbari, e non è distante Jarmah, una sorta di campo base per un’escursione da raccontare. Occorre passare dal camper a una 4×4, il veicolo più adatto per addentrarsi fuori strada nell’Erg Awbari, verso i laghi di Ramlat ad-Duwadah. La zona prende il nome dall’antica popolazione qui residente: i “Duwada” o mangiatori di vermi. Si nutrivano di piccolissimi crostacei simili, appunto, ai vermi. I laghi sono una ventina: alcuni sono mentre in altri si può camminare su una crosta di sale. Dopo un’entusiasmante “planata sulle dune di sabbia” con i fuoristrada, il Lago Mandara in via di prosciugamento, appare all’improvviso ed è, veramente, simile a un miraggio, col suo blu intenso, incoronato da un’oasi verde. Più oltre, un villaggio di capanne abbandonate testimonia un precedente insediamento e la fitta presenza di palme, al di là delle dune, accompagna una specie di canale (Umm al-Ma, madre delle acque), il bacino da cui, forse, nasce la falda che alimenta gli altri laghi. Il più distante dei principali bacini è il Gabraoun, dal nome del capostipite dei “Duwada”, Aoun.

Mistico silenzio
Si punta su Ghat, di nuovo al confine con l’Algeria. Si prova l’indescrivibile emozione di trovarsi a contatto con il fiero popolo dei tuareg, i mitici abitanti nomadi del Sahara. E siamo pure al capolinea del lungo viaggio, nel palpitante cuore del deserto, meta e punto di partenza per tanti esploratori. Il deserto di Maghadgat è un altro luogo mistico, ove perdersi ad ascoltare, come dicono i Turareg, “il rumore del proprio cervello”. Qui, immensi e frastagliati pinnacoli si ergono dalle sabbie ora gialle, poi rosate, ora ocra poi rosse. Il rispetto impone il silenzio. Si respira un’atmosfera primordiale, intrisa di spiritualità. E da un deserto unico e irripetibile ad un altro altrettanto esclusivo, sebbene più famoso: l’Akakus. Occorre raggiungere Awinat. Sono 150 chilometri di rilievi montuosi e deserto, naturale prosecuzione del Tassilli algerino. L’Akakus è la falesia settentrionale, Tadrart (montagna in tuareg) quella meridionale. Si è di fronte a uno, scenario composto da estese aree di sabbia e ciottoli con il contrappunto di formazioni rocciose dalle infinite variazioni, modellate da vento, acqua e sabbia: pinnacoli come immense canne d’organo o veri massicci scolpiti dal tempo. In realtà sono, pure, altro: un vero museo all’aperto di graffiti preistorici, documento di vita e costume, il maggiore sito d’arte rupestre di tutto il Sahara. Meravigliose le scene di caccia dell’uadi Tanshal, le figure femminili di Uan Muhuggiag, mentre la natura offre, da par suo, i pinnacoli di roccia nera dell’Awiss.
Il viaggio di ritorno verso Tripoli sarà pavimentato di nostalgie, rimpianti e ricordi entusiasmanti e non potrà terminare senza essere andati a conoscere la deliziosa Leptis Magna, cittadina un po’ Roma, un po’ Atene, rimasta come allora. Vi soggiornarono prima i punici e poi i fenici. Dopo la sconfitta di Cartagine (146 a.C) i romani vi si stabilirono e inglobarono quel che restava dell’era punica. Il patrimonio archeologico, ancora, da visitare annovera tanti monumenti. Ormai Tripoli è a due passi. Ed è il primo ritorno alla civiltà. Ben presto il viaggio sarà già un ricordo, una memoria indelebile.

Il Sogno americano (Tuttomoto – gennaio 1996)

Nel 1996 il mensile Tuttomoto ha pubblicato uno dei viaggi più emozionanti che abbia mai fatto: 12.000 km “coast to coast” in moto e tenda negli Stati Uniti. Un’avventura vissuta insieme al mio amico Luca Cannonieri, autore delle foto.

Dodicimila chilometri in 50 giorni da Los Angeles a New York, passando per il Colorado e il Texas fino a New Orleans. Da qui in volata a New York
È diffìcile descrivere le emozioni che ci assalgono al cospetto di un così stupefacente spettacolo naturale. Ci sentiamo piccoli. Ogni angolo dell’immenso parco riserva una sorpresa. La vegetazione, maestosa e imponente, lascia il passo a canyon rocciosi e fragorose cascate, sulla divertente strada tutta curve che porta al villaggio. Siamo negli Stati Uniti, immersi nel verde dello Yosemite National Park, in sella a due moto, un po’ vecchiotte, ma dignitose. Un viaggio che ci riporterà in circa un mese e mezzo fino a New York, facendoci attraversare un intero continente dalla costa pacifica a quella atlantica. Siamo partiti da San Francisco, dove abbiamo comprato le moto. Non sono Harley, ma il budget è ridotto all’osso. In fondo quel che conta è stare in sella. Abbiamo lasciato la città con il rimpianto di non aver visto un’ora di sole e con il desiderio di tornare a vivere ad Haigh Asbury, patria della psichedelia, dei Grateful Dead di Janis Joplin, dove ancora si respira aria di anni ’60.

Adesso siamo nel campeggio del parco. Cerchiamo di vivere intensamente i quattro giorni di sosta previsti, visitando il Mariposa Groove con le sue sequoie giganti, passeggiando a cavallo, facendoci portare a spasso dalle correnti del fiume e aspettando invano la visita di un orso modello Yoghi. Le moto si stanno comportando abbastanza bene. I quattro cilindri della mia Honda CB 650 Custom tuonano con insofferenza al limite di velocità imposto dalle severe leggi americane. mentre il CX 500 Deluxe di Luca fatica a superare i 5000 giri. Un problema che pensavamo dovuto alla carburazione ma che si è rivelato ben più grave: l’accensione elettronica. Beh. finché va, pensiamo, ce la teniamo in questo modo. E tutto fila liscio. La Rospa, così la chiama affettuosamente Luca, arriverà, sputacchiando, fino a New York, mangiandosi circa 12 mila chilometri nei 50 giorni di viaggio. Ma siamo solo all’inizio. Ripartiamo da Yosemite alla volta di Los Angeles, dove ci attendono alcuni amici milanesi che hanno affittato una casa per l’estate. Los Angeles è una città dove convivono realtà completamente opposte, dalle fatiscenti case dei poveri quartieri neri e portoricani alle sfarzose ville di Beverly Hills. Ma proprio queste contraddizioni rendono affascinante l’immensa metropoli. Ti può capitare di incontrare Brigitte Nielsen seduta al tavolino di un locale. Slash (il chitarrista dei Guns n’ Roses) che firma autografi dalla sua Limousine o Jovanotti che fa il bullo sulla spiaggia. Dopo le Magic Mountains. gli Hollywood Studios e l’alcolicissima festa messicana di Santa Barbara ci sentiamo pronti per ripartire. Attraverso il Mojave Desert ci dirigiamo alla volta di Las Vegas. Il sole picchia forte e l’aria condizionata nei Mac Do- nalds in cui ci fermiamo è un continuo attentato ai nostri bronchi. Arriviamo in prossimità della capitale del gioco d’azzardo che è già notte, avendo percorso decine di miglia immersi nell’oscurità più completa: quand’ecco apparire al-l’improvviso un brillante lampadario colorato in mezzo al nulla del deserto. Ci immergiamo nei neon della città. Mai visto niente di più kitsch del Caesar Palace, con i suoi centurioni romani vestiti di plastica, come di plastica sono le statue che abbondano ovunque nell’edificio. Tintinnii dappertutto, gente stregata da slot machine e tavoli da gioco. Io, Luca e gli amici milanesi giochiamo quasi tutta la notte e riusciamo anche a vincere. Al mattino, non abbiamo chiuso occhio e abbiamo pagato una stanza per niente. Ma c’è molta strada da fare.

Prossima tappa Grand Canyon. Nessun panorama al mondo può eguagliare quello che si gode dall’alto di questa incredibile ferita della Terra. Il Colorado River scorre impetuoso sul fondo, mentre il tramonto ci regala una gamma di colori che passano dal vivido arancione al rosso fuoco. Lasciamo il Grand Canyon per dirigerci verso la Navaho Reservation arrivando fino a Page, nel Glen Canyon. La strada che porta alla Monument Valley sembra infinita. È abbastanza raro che piova nel deserto. Senza dubbio, allora, dobbiamo ritenerci privilegiati perché di acqua ne prendiamo parecchia. Al praticello fiorito, che da tempo aspettava avidamente qualche goccia per resuscitare, si sostituisce il terriccio rosso della vallata (agli indiani hanno lasciato solo un mucchio di sabbia!). Nei mastodontici monumenti naturali che arredano la grande piana riconosciamo la scenografia dei più gloriosi film western. Così, una galoppata con gli indiani e una notte passata a guardare il cielo consacrano definitivamente le nostre ambizioni da cow boy. Tocchiamo il Colorado passando per Durango e raggiungiamo Santa Fe (New Mexico) nel periodo ideale: durante l’Indian Market. Fra i bassi edifici in mattoni essiccati al sole, che mescolano lo stile spagnolo a quello indiano, gli Indiani Americani, provenienti da tutti gli Stati, espongono gioielli, tessuti e ceramiche. Si respira un’atmosfera dal sapore antico che ci convince a fermarci in città. Conosciamo Jason. uno studente del luogo, che ci ospita a casa sua per qualche giorno, facendoci da Cicerone e scorrazzandoci nel deserto a bordo del suo pick- up.

Lasciamo Santa Fe già pre¬gustando Fottima cucina Cajun che troveremo a New Orleans. Ma prima ci vorranno alcuni giorni per attraversare il Texas, decisamente monotono. Sterminate praterie e pozzi di petrolio ovunque, anche nei giardini delle villette. Vorrem¬mo passare qualche giorno in un ranch, pretendendo, come unico compenso per il nostro lavoro, vitto, alloggio e qual¬che cavalcata. Che amara delusione scoprire che i cavalli sono stati sostituiti da più moderni ed efficienti pick-up! Proseguiamo. Ci vogliono due giorni per attraversare il più grosso stato degli USA, ma alla fine arriviamo a New Orleans (Louisiana), la patria del jazz. La celebre Bourbon Street è assediata dai turisti. Ormai il jazz entrare alla Preservation Jazz Hall. Il quartiere francese rap¬presenta l’attrazione principale della città. Fra le strette stradi¬ne, si stagliano edifici di stori-ca memoria, con raffinate rin¬ghiere in ferro filigranato. Lasciamo dopo quattro gior¬ni lo scalcinato motel di peri¬feria, scelto unicamente in base alle economiche tariffe, per dirigerci verso Washing¬ton. Affamati di natura sceglia¬mo la Natchez Trace Parkway. Torniamo, così, alla vita *‘on thè road” che ha caratterizzato buona parte della nostra avventura ad occidente. Dormiamo assediati dalle zanzare in una pic-nic area e ci concediamo un motel solo a Tupelo, cittadina del Tennes¬see che ha dato i natali a Elvis.


 
Riprendiamo il viaggio e arri¬viamo a Washington. Una città affascinante. L’impressione che si ha è quella di entrare nell’Atene del ventesimo seco¬lo. Ovunque monumenti mar¬morei e musei per tutti i gusti. Scegliamo, fra i tanti, il Na¬tional Air and Space Museum. Sulla strada per New York, abbiamo la fortuna di imbat¬terci nel Daniel’s Pub, un loca¬le sul ciglio della strada fre-quentato da bikers. Sarà per¬ché siamo simpatici o forse solo per le targhe californiane, ma siamo accolti da fratelli. Mai vista una concentrazione così alta di Harley, se non in qualche raduno monomarca. I ragazzi del pub ci accompa¬gnano in una visita del Mary¬land, e dopo qualche birra e diverse “snaps” viene il mo¬mento di accomiatarci. Arriviamo nella Grande Mela verso mezzanotte e indubbiamente dalla parte sba¬gliata: siamo ad Harlem! Impossibile non lasciarsi pren¬dere dall’inquietudine. Ovun¬que ci sono facce non sono troppo rassicuranti. Arriviamo finalmente nel cuore di Man¬hattan dove siamo attesi da amici, che ci ospiteranno fino a rivendita delle moto avvenu¬ta. New York rappresenta la quintessenza dell’America urbana: enorme, frenetica, cosmopolita. Ci fermiamo una settimana dove, fra un diverti¬mento e l’altro, cerchiamo anche degli acquirenti per le nostre moto. Non è facile. Ad ogni modo, i due enormi car¬telli “For Sale” posti sui serba¬toi attraggono l’attenzione di due ragazzi. Prima di una disa¬strosa lezione di guida, ci assi-curiamo la conclusione del contratto di vendita. Ripartiamo alla volta del¬l’Italia con un carico di espe¬rienze, immagini, suoni e odori che richiederebbe un’en-ciclopedia per essere racconta¬to, ma con un unico pensiero in testa: tornare al più presto negli USA per girare il nord- ovest e gli Stati centrali.


 

Il Marocco fuoristrada (Tuttomoto – gennaio 1997)

Nel 1997 il mensile Tuttomoto ha pubblicato il mio viaggio in Marocco a bordo di un Honda Parigi Dakar 600. Un’avventura fuoristrada in uno dei paesi più affascinanti che abbia mai visitato.

Cinque amici impegnati in un raid nel Nord Africa. Dall’Alto Atlante al deserto, dalla Valle del Draa a Fèz e a Tangeri. Un’esperienza unica con tratti fuoristrada non proprio facili

La Costa Atlantica scorre velocemente alla nostra destra, ma di quel Marocco selvaggio, variopinto e mutevole tanto descritto da chi questo viaggio l’ha già affrontato, per adesso non c’è traccia. Siamo in cinque, tre di Milano e due di Pistoia, un gruppo ben affiatato con moto rigorosamente attrezzate per il fuoristrada. Le estenuanti formalità doganali ci ave vano fatto temere il peggio ma, dopo un attentissimo controllo iniziale, la polizia, poi, non ci ha più fermato. Dopo Tangeri, dalla quale siamo fuggiti ansiosi di “aggredire il Nord Africa’’, Essaouira è la prima città caratteristica che incontriamo. Il profumo di antico che respiriamo nel    la medina ci cala finalmente in un’atmosfera araba. Ad Agadir ci dobbiamo fermare tre giorni a causa di una caduta, ma abbiamo il tempo per una puntata a Sidi R- bat, riserva naturale e caratteristico villaggio di pescatori, sulla cui spiaggia infinita non risparmiamo sul gas dell’acceleratore.   Ci stacchiamo definitivamente dalla costa e incontriamo la prima oasi, ai piedi della suggestiva casbah di Tioute.

La deviazione per l’Alto Atlante sulla S501 ci porta a toccare i 2092 metri del Tizi-n-Test. percorrendo una strada divertente, scavata nella roccia, dietro le cui curve cieche non sai mai se aspettarti un venditore di fichi d’india o un camion che l’ha presa un po’ troppo larga. Le rosse mura di Marrakech si aprono su quell’incredibile fiera delle meraviglie che è la piazza di Jemaa EI Fna. Ci fermiamo due giorni, ma rimaniamo delusi dall’aspetto troppo turistico. Muovendoci sulla P31 dopo la casbah di Te- louèt. imbocchiamo una pista impegnativa: 35 km di sterrato che attraversano canyon meravi- gliosi disseminati di villaggi sperduti e oasi fluviali il cui verde contrasta con il rosso delle rocce al tramonto. Ci rendiamo conto in breve della difficoltà di affrontare con le moto cariche un percorso fuoristradistico. costellato di curve a gomito e strapiombi. Così, lasciamo quasi tutti i bagagli nello Ksar di Ait Benhaddou. La strada che ci porterà verso le Gole del Todra è davvero rovente. È il primo scampolo di deserto che ci è dato di vedere e se le moto dovessero fermarsi adesso, rimarremmo sotto un sole da 50 gradi all’ombra: senza, però, nessuna ombra. Arrivati a Tinehrir dobbiamo fermarci. Il Todra è in piena a causa di un eccezionale acquazzone e la strada è bloccata. Dopo una nottata passata a suonare tamburi berberi, siamo pronti ad affrontare gli oltre 350 km di piste che dalle gole del Todra ci porteranno sino ad Imilchil e poi indietro alle Gole del Dades.

La strada assume mille sfaccettature. dallo sterrato alla ghiaia, dalla roccia viva al fango, dall’attraversamento di torrenti a quello di  lunghe e profonde pozze d’acqua. Dopo parecchie ore passate sotto una pioggia battente il tendone-bar di Agoudal ci sembra un miraggio. Un bagno nel gelido Lago Tislit a quasi 2000 metri ci prepara al ritorno ad Ait Benhaddou dove ritiriamo i bagagli. Attraversiamo frettolosamente Ouarzazate. per lanciarci fra le rigogliose oasi della Valle del Draa. Tappa unica per arrivare a Rissani, ultimo avamposto civilizzato alle porte del Sahara. Ancora una volta ci sbarazziamo dei bagagli e affrontiamo la pista che porta a Merzouga. Sono circa 50 km di sabbia compatta, con tratti spesso troppo morbidi per rilassarsi nella guida. La mancanza assoluta di segnali ci fa dubitare più di una volta di essere sulla strada giusta, finché non appaiono in lontananza le imponenti dune dell’Erg Chebbi. Abbandonata Merzouga ci dirigiamo alla volta di Fèz. Passiamo Midelt dove in lontananza si staglia il Cirque du Jafar e deviamo, dopo circa 40 km, sulla S305 che attraversa la maestosa foresta di cedri dove le scimmie regnano sovrane.

Fèz è l’ultima città imperiale che incontriamo. Impieghiamo un giorno intero per visitarne a piedi la medina. E come fare un salto indietro nel tempo di secoli, tra concerie di pelli e laboratori artigiani in cui si lavora l’argento. Sul Rif il piacere di percorrere una strada in mezzo a lecci, querce e alberi da sughero si alterna alla preoccupazione di investire uno dei tanti ragazzini che cercano di venderci panetti di hascisc o tirarci pietre. A Ketama la polizia non entra e si vedono delle brutte facce. La nostra guida, reclutata a Fèz, ci conduce in un villaggio circondato da smisurate piantagioni di “kif”. Siamo ormai sulla strada del ritorno. A Tangeri prendiamo il traghetto per Algeciras, invece che per Sete come all’andata. Dopo pochi minuti sul suolo europeo, il rammarico di aver visto un solo millesimo di quanto avremmo potuto, lascia spazio al piacere di un buon hamburger di carne bovina (basta pecora!) e di una birra fresca.

Bloccati in camper sul lago salato australiano per 27 ore

È rischioso avventurarsi sui laghi salati: la crosta cede e lascia sprofondare le ruote in un fango argilloso che quando si secca blocca il veicolo.

Mentre Marco legge questa frase sulla nostra guida turistica, il Toyota Landcruiser comincia a sprofondare. Siamo sul lago Cadibarrawirracanna, che ha come unica caratteristica di interesse turistico quella di essere il lago australiano con il nome più lungo. “Non è grave” – penso io. È agosto e siamo circa a metà del nostro itinerario dopo essere partiti da Perth con una jeep camperizzata presa a noleggio dal network Britz per un viaggio che ci porterà in giro per l’Australia per 9000 chilometri. Abbiamo già percorso la costa ovest e tagliato il “Red Centre” australiano, optando, quando possibile per piste fuoristrada. E anche ora siamo fuoristrada. Nel senso letterale del termine… la strada è terminata nel lago prosciugato e non ce ne siamo accorti. Ma “non è grave” – penso ancora io. Esco a vedere com’è la situazione.

Siamo abbastanza impantanati, ma con un po’ di manovre forse ce la faccio. Un po’ avanti, un po’ indietro…. La macchina sembra muoversi. Parte, facciamo qualche metro e risprofondiamo. Fermi. Bloccati. Sperduti nel nulla. Fuori da qualsiasi rotta turistica. Cerchiamo degli arbusti per creare un po’ di grip sotto le ruote. Utilizziamo i tappetini dell’auto. Niente da fare. Ogni tentativo per uscire dall’impantanamento ha come effetto quello di scavare ancora di più. Finché il fondo dell’auto non appoggia sulla superficie. Splendido davvero. È l’una del pomeriggio. Analizziamo la situazione con calma. Abbiamo un’abbondante riserva d’acqua, sufficiente anche per una settimana, 5 chili di spaghetti e un po’ di scatolame vario. Niente panico, allora. “Non ci rimane che aspettare che qualcuno venga a salvarci” – dico io.

In Australia è inverno, ma qui siamo già sufficientemente a sud per avere una temperatura gradevole: 20-22 gradi C di giorno e intorno ai 10° C la notte.

Le mosche sono insopportabili e fastidioso è il vento che spira senza sosta. Ci alleniamo un po’ con il boomerang. Divertente. E non è così difficile farlo tornare al punto di lancio. Ma è decisamente rischioso per le dita cercare di prenderlo al volo! Sono già passate tre ore. Io mi lascio trasportare nel medioevo da Ken Follett con il suo “I Pilastri della Terra” un tomo da oltre 1000 pagine. L’ottimismo prevale. C’è acqua, cibo e anche un libro appassionante. Ma sì, che ci passa. Arrivano le 18 e cala il buio. Una bella spaghettata, due chiacchiere tra amici e a letto presto. La ricetta giusta per essere in forma la mattina seguente.

Alle 8 del mattino un buon caffè con la moka e siamo pronti a essere salvati. Passa la prima ora. Cominciamo a dubitare. L’allegria lascia il posto alla preoccupazione. “Ma chi viene a vedere questo spiazzo desertico, defilato e senza alcuna attrattiva?”. Ci malediciamo per aver risparmiato sul telefono satellitare che, per un costo di noleggio risibile, poteva far parte del nostro equipaggiamento. Allora, ci viene un’idea. Scriviamo con un pezzo di legno una grande scritta nella terra argillosa: SOS. Non passa più di un’ora ed ecco il rumore di un aereo da turismo che vola a bassa quota. Ci sbracciamo, urliamo, saltiamo. L’aereo fa un giro sopra le nostre teste…. ci ha visti! Evviva siamo salvi. Siamo allegri, eccitati, ma anche impazienti. Arriva l’una del pomeriggio. Sono 24 ore che siamo bloccati “in the middle of nowhere”. Non ne possiamo più. “Mai allontanarsi dalla macchina” recita la guida. Eppure siamo stufi. C’è una strada. Saranno 10, 15 forse 20 chilometri prima di arrivare alla Oodnadatta Road. Ci proviamo? Sì. Eccoci con una copiosa scorta d’acqua a camminare nel deserto. Sono ormai le 14 e 30, quando vediamo sfrecciare tre jeep sulla stradina di fronte a noi. “Siamo qui!” Non ci vedono. Corriamo. Corriamo ancora più forte. Li raggiungiamo dopo un po’. Sono fermi a distanza di sicurezza dalla nostra jeep… mica scemi… loro! “Ciao ragazzi, siamo venuti a salvarvi”! Sono passate 27 ore.

Si tratta di un gruppo di australiani appassionati di off road che hanno letto un fax diramato dalla polizia a tutti i pub dei dintorni. Iniziano quindi le non facili operazioni di soccorso. Prima di tutto bisogna scavare sotto tutte e quattro le ruote. Poi rigonfiarle! “È nella sabbia che vanno sgonfiate… non nel fango!” ci sbeffeggiano.

Ed ecco spuntare uno strumento risolutivo: un pallone che si gonfia con il tubo di scappamento. Lo sistemano vicino alla ruota posteriore destra e man mano che il pallone si gonfia la macchina si solleva. Nel cratere sotto il pneumatico viene alloggiata la ruota di scorta. Ci siamo quasi. E ora l’argano elettrico. Finalmente, la nostra macchina riemerge dal fango mentre noi urliamo il nostro entusiasmo. “Ci avete salvato la vita! Diteci quanto vi dobbiamo per l’intervento, saranno i soldi meglio spesi di tutta la vacanza!”. “Ma noi non vogliamo nulla!” ci rispondono offrendoci la birra più gustosa e rinfrescante che abbia mai bevuto in vita mia.

Antonio Mazzucchelli

Verso Capo Nord in moto e tenda nell’estate più orribile di sempre

Cercando su Internet ho scoperto che tra settembre e dicembre del 2000 ci sono stati, a ovest di Oslo, in Norvegia, 87 giorni di pioggia consecutivi.

Guardiamo il bicchiere mezzo pieno: a noi è andata bene, perché ne abbiamo dovuti sopportare solo 25! Proprio così 25 giorni di pioggia su 27 di vacanza. È successo il mese di agosto di una decina di anni fa, quando, insieme con Luca e Nicolas, ho deciso di affrontare la grande sfida: arrivare a Capo Nord in moto. Naturalmente con tenda, sacchi a pelo e cucina da campo al seguito. Beh è stata una vacanza durissima. Pioveva tutti i giorni. Ma non quegli acquazzoni tropicali che capitano durante l’estate italiana… no, una pioggerellina continua e persistente con il cielo plumbeo e il mondo in bianco e nero. Che tristezza. Stavamo girando un Paese straordinario, coloratissimo e con paesaggi naturali di incomparabile bellezza, nel modo peggiore. E che dire dell’umore. Pur essendo tre amici di lungo corso con alle spalle molte avventure motociclistiche, litigavamo in ogni momento e più di una volta abbiamo rischiato di interrompere il viaggio. Scientificamente pare che i raggi ultravioletti stimolino il rilascio di serotonina, un potente antidepressivo prodotto dall’organismo umano. Ecco perché nei paesi del nord ci sono alte percentuali di depressi e di suicidi! E vi garantisco che rimanere a lungo senza sole crea preoccupanti stati d’animo. Per fortuna a un certo punto il sole è arrivato… per due giorni.

Guidare la moto sotto la pioggia è pericoloso e faticoso. Noi l’abbiamo fatto per oltre 7000 chilometri. Ma forse ancora più gravoso ed esasperante è montare il campo sotto l’acqua.
Avevamo elaborato una tecnica, che alla fine del viaggio era davvero collaudata: lasciavamo i bagagli coperti da teli di plastica sulle moto finché non avevamo montato il telo esterno della tenda che, grazie all’ossatura creata con le stecche, formava una cupola impermeabile. A quel punto si montava la camera interna e si depositavano tutti i bagagli nella verandina. Non sapete che piacere entrare in un sacco a pelo umido dopo una giornata alla guida di una moto sotto la pioggia! Stesse manovre, ma al contrario, per andare via.

Ogni tre giorni di campeggio ci concedevamo una notte in albergo. Qui, con gli elastici della moto creavamo un lungo stenditoio che attraversava tutta la camera e sul quale mettevamo ad asciugare un po’ tutto… Abbiamo scoperto che anche a pochi gradi di temperatura si può essere divorati dalle zanzare. E che per la pesca al salmone sui fiumi norvegesi c’è bisogno di una licenza che dà diritto a pescare in esclusiva in uno specifico tratto d’acqua. L’abbiamo scoperto perché appena abbiamo messo gli ami in acqua hanno chiamato la polizia! Abbiamo visto le balene con un mare forza quattro e una nausea forza dieci! Abbiamo scoperto che ai norvegesi piace usare le motoslitte (quelle da neve) per attraversare laghi e fiumi… e chi sbaglia… affonda.

Una vacanza da dimenticare, si potrebbe dire… invece, a distanza di parecchi anni, riguardando anche le poche, pochissime foto scattate durante le pause di pioggia, la ricordo con piacere. Un viaggio che ci ha messo a dura prova e ci ha dato grandi insegnamenti il primo dei quali è che in Scandinavia…. BISOGNA ANDARCI IN CAMPER!

Antonio Mazzucchelli

Se il viaggio è cult (Caravan e Camper – gennaio 2007)

Nel 2007 il mensile Caravan e Camper ha pubblicato il mio viaggio in Marocco a traverso città imperiali, l’Atlante, deserti, oasi, popoli e tradizioni.

Il viaggio in Marocco offre la grande occasione di poter risvegliare tutti i nostri sensi, sottoponendoli a continue sorprese. In poche centinaia di chilometri i paesaggi mutano radicalmente e con essi la pienezza dei colori e la temperatura sulla pelle. Si passa dalle alte dune di sabbia dorata del deserto ai canyon impervi dell’Atlante, dalle kasbah di argilla ai minareti candidi e ai palazzi impreziositi di mosaici delle città imperiali, dalla vegetazione rigogliosa di conifere ai paesaggi innevati e lunari dei passi di montagna. Le città sono delle vere fonti inesauribili di emozioni e sensazioni inusuali. Gli odori speziati e forti dei mercati e delle concerie si mescolano con quello della polvere delle strade e subito dopo col profumo inebriante delle bancarelle traboccanti di menta. Il nostro palato è continuamente sollecitato dai sapori nuovi e piccanti e nuovamente sorpreso dalle armonie del the marocchino. I canti della preghiera, la musica, i rumori e le voci delle piazze affollate lasciano il posto, nel deserto, al vuoto conturbante del silenzio assoluto. Ancor più sorprendente è il salto che la mente di un europeo deve fare per accostarsi alla vita e ai ritmi dei villaggi e delle città. Osservando le case, gli artigiani nelle loro botteghe, gli stessi mercati pur riccamente forniti di ogni bene, è impossibile non provare talvolta la sensazione di trovarci nel bel mezzo di un’affascinante civiltà del passato. L’arrivo è a Tangeri, ma partiamo subito alla volta della città imperiale di Meknes, situata nella regione del Medio Atlante. La visita della città antica è particolarmente interessante ed emozionante: un vero dedalo di stradine che si susseguono ingannando il nostro orientamento e offrendoci il loro vivo e generoso disordine apparente. In realtà il mercato (suk) è costruito seguendo una precisa suddivisione merceologica delle botteghe di artigiani e commercianti, nonché una gerarchia legata al valore di ciascun bene venduto: ecco quindi caratterizzarsi la strada dei fabbri, dei conciatori di pelli, dei commercianti di tappeti, di carni, di uova, di gioielli, di “eccetera eccetera”, secondo un elenco che potrebbe continuare ancora a lungo.

LA MEDINA DI FES
La giornata seguente è dedicata alla visita della più antica tra le città imperiali del Marocco, Fes, e della sua medina, racchiusa, come di consuetudine, da mura e porte imponenti. Anche qui è d’obbligo la visita dei suk nella parte antica della città e in particolare delle concerie, dove le pelli vengono lavate e colorate in vasche centenarie, con colori naturali o chimici. Uno spettacolo è straordinario, non solo per la policromia di questi strani alveari, ma anche per la maestria e l’unicità dei gesti dei conciatori, anch’essi praticamente immersi, insieme alle pelli, nelle vasche colorate. E se la vista è appagata, non si può dire lo stesso dell’olfatto che viene decisamente offeso da un odore forte e sgradevole, che rimarrà ben impresso nella nostra memoria. Proseguiamo la strada verso sud, attraversando la regione del Medio Atlante, Ifrane e fino a Midelt. Attraversando Ifrane, non si può rimanere indifferenti alle case e agli chalet di legno dai tetti spioventi, agli impianti da sci ai margini dalla strada, alle indicazioni per un campus universitario, alla fiabesca residenza estiva del re, immersa in una foresta di cedri. Estremamente suggestiva, la strada da Ifrane a Boulemane è alquanto tortuosa e il consiglio è di non percorrerla di sera.
Le montagne dell’Atlante sono popolate da tribù berbere, che d’ora in poi durante il viaggio impareremo a riconoscere per la tipica tunica azzurra maschile (la djellabah) e il mantello a strisce colorate delle donne. Esistono diversi gruppi berberi, con origini, storia, dialetti e vocazioni diverse: culture per noi sicuramente di difficile distinzione e comprensione. Per il momento ci limitiamo ad ammirare gli splendidi tappeti di seta, nonché l’inusuale verde dei loro occhi, ma non mancheranno le occasioni, durante il viaggio, per passare qualche serata in compagnia a cena, a suonare e cantare le tradizioni berbere.

L’ATMOSFERA DEL DESERTO
Lasciando, oltre Midelt, i paesaggi innevati e la fresca temperatura delle montagne, si inizia ad avvertire, dirigendosi verso Er Rachidia e oltre Erfoud, la decisa atmosfera del deserto. Il paesaggio cambia completamente e, giunti al villaggio di Rissani, gli splendidi palazzi decorati dagli imperatori del XVII secolo appaiono davvero lontani. Merzouga è il villaggio che ci apre la via del deserto Erg Chebbi. Lo scenario è quello ripreso nei film “Il the nel deserto” e “Marrakech Express”, ma certo i numerosi e nuovissimi alberghi e le carovane di jeep rendono l’atmosfera fin troppo turistica. Bisogna inoltrarsi un bel po’ in questa sabbia avvolgente per apprezzare pienamente la magia delle grandi dune. Inutile dire che una camminata di qualche ora nel deserto vale più di un mese di corso di yoga in città, specialmente se si sceglie il momento dell’alba o del tramonto. Il viaggio deve proseguire, malgrado i benefici della meditazione, verso Marrakech. Attraversiamo le Gorges du Todra e raggiungiamo verso sera Tinerhir, villaggio sulla strada, completamente asfaltata, che porta a Imilchil. Nuovamente il paesaggio cambia. Le gole sono profondissime, le rocce creano ombre e geometrie inquietanti, le kasbah disabitate e in rovina susseguite da oasi verdissime ci lasciano in silenzio e incantati. Per gli appassionati di trekking, questi posti sono una vera manna. Attraversiamo Boumalne du Dades e l’omonima valle e passiamo per Ouarzazate, città dalla posizione strategica, sulla via di collegamento tra le montagne e il deserto. Le maestose kasbah situate nei dintorni di Ouarzazate sono state, forse, le muse ispiratrici per la nascita e lo sviluppo degli studi cinematografici Atlas, ben visibili lungo la strada per Marrakech, a pochi chilometri dal centro della città, dove sono stati girati centinaia di film da oltre un secolo a oggi. Scegliamo di visitare l’antica fortezza di Ait Ben Haddou, poco prima del tramonto. Che spettacolo! Immaginiamo lo scenario di un tempo, quando questa roccaforte imperiosa che si alza sul letto di un fiume era sede di dimore lussuosamente decorate e di architetture raffinate. Ora rimangono un panorama mozzafiato e l’intuizione che anche l’impegno al restauro da parte dell’Unesco non potrà fermare il lento sgretolarsi dell’argilla riscaldata dal sole e martoriata dal vento. Ancora abbagliati dal riflesso del tramonto sulle mura di Ait Ben Haddou, proseguiamo verso Telouet e la valle del Tizi-n-Tichka. Di nuovo montagne, vegetazione, aria fresca e leggera, donne e contadini che rientrano lenti dai campi ricavati dal nulla, eppure rigogliosi di fiori e di palme.

LA PIAZZA DEI MIRACOLI
Entriamo a Marrakech con la curiosità e l’eccitazione dei bambini all’ingresso di un parco dei divertimenti: siamo nella famosa Place Jemaa el-Fna. Questa piazza, nel cuore di Marrakech, è perfettamente definita dai turisti, dalle guide, e forse nel linguaggio comune, come l’ombelico del mondo. Non sarà il centro dell’universo o delle nostre esistenze, tuttavia, se ci si lascia trasportare dall’atmosfera intorno e si è tolleranti con l’affollamento di turisti e di show a loro dedicati, si ha davvero la sensazione di essere arrivati in un luogo unico, significativo, che rievocherà sempre in noi immagini e alchimie sensoriali importanti. Jemaa el-Fna è vita, pienezza ed energia allo stato puro. Di giorno vivace mercato, la sera si trasforma, proprio come il palcoscenico di un teatro. Alle bancarelle di ortaggi, ceste e tessuti ricamati si sostituiscono banchetti e panche dove cenare, al posto dei carretti di arance e spremute si allestiscono fornelli e grill per creare, presto, un tripudio di cibo profumato e tentatore. Intorno a questa giostra di leccornie, ruotano personaggi di tutti i tipi, più o meno autentici e convincenti nella loro offerta folcloristica al turista: incantatori di serpenti, venditori d’acqua, artisti di tatuaggi di henné, musicisti e poi ancora tante altre figure umane che ormai costituiscono l’iconografia di Jemaa el-Fna. La visita di Marrakech richiede e merita tempo e attenzione, partendo dai bastioni, per poi addentrarsi nei suk, decisamente molto più estesi e ricchi di Fes e Meknes, soffermandosi a visitare palazzi e giardini esotici. Al posto del taxi, ci facciamo portare di quartiere in quartiere dalla tipica carrozza per i turisti, senza nessun senso di colpa, ma anzi godendoci i racconti del nostro cocchiere promosso a guida turistica.

L’OCEANO ATLANTICO
Decidiamo infine di non privarci di una sosta a Essaouira. Eccellente decisione, perché riceviamo ancora una nuova, diversa immagine di questo Paese. Siamo in un’antica città fortificata spagnola, il colore dominante è il bianco delle case e l’azzurro delle decorazioni delle finestre, nonché delle centinaia di barche da pesca attraccate al porto. La pesca è una delle attività principali in questa città, ma anche l’artigianato del legno e la pittura figurativa catturano e meritano tutta la nostra attenzione e ammirazione. La spiaggia ai piedi della cittadina è molto estesa e si presta a lunghe passeggiate in bicicletta o a piedi, a partite a calcio, al semplice riposo. Più a nord, la costa è molto bella, meta di surfisti e decisamente più tranquilla, per godersi un ultimo tramonto mozzafiato prima di pensare alla via del ritorno.

CONSIGLI PER IL VIAGGIO
Innanzitutto, attenzione ai limiti di velocità: la polizia è ovunque e le multe sono salate e all’ordine del giorno. In più non è sempre una bella esperienza trattare con la polizia, sebbene ci sia un occhio di riguardo per i turisti. Non abbiamo particolari altri consigli sulle strade, assolutamente adeguate e ben segnalate. Troverete la strada asfaltata praticamente sino alle dune del deserto a Merzouga e generalmente rifornimento di benzina e cibo. Tuttavia, è bene viaggiare di giorno, intorno alle sette del pomeriggio molte strade diventano buie e apparentemente solitarie! Il consiglio più importante riguarda forse gli acquisti. In Marocco si è davvero tentati di comprare ogni oggetto di artigianato nei mercati o nelle bancarelle lungo la strada. Dai classici tappeti berberi ai quadri di Essaouira, dagli oggetti in ferro battuto o in legno alle ceramiche e ai quarzi coloratissimi dell’Atlante. Tuttavia, è molto importante conoscere le regole del gioco della contrattazione più abile, dedicare tempo e accompagnarsi da una sana pazienza prima di accostarsi alla scelta, all’acquisto e al the alla menta di rito che vi verrà offerto in segno di amicizia e di reciproco ringraziamento. Durante il viaggio non vi sentirete mai soli, ci saranno sempre ragazzini o uomini pronti a darvi consigli o a offrirsi come guide, spesso anche in buon italiano. Il consiglio è di usare certo la massima gentilezza, ma anche risolutezza nel rifiutare offerte continue di aiuto… sempre a pagamento! Noi abbiamo scelto di girare per gli splendidi suk di Meknes, Fes e Marrakech con l’ausilio di guide ufficiali.

È l’unico modo per potersi perdere serenamente nei dedali di stradine, negli angoli più nascosti e autentici, senza alcuna altra intrusione, non sempre desiderata. A proposito di compagnia. È bene avere sempre qualche dihram a portata di mano per una amichevole mancia, pagare un posteggio o per acquistare qualche arancia al volo sulla strada. È, ovviamente, graditissimo il semplice dono di qualche caramella ai bambini che affollano all’improvviso qualsiasi strada ci si trovi a percorrere.La primavera è forse il periodo migliore per visitare il Marocco, il clima e la temperatura sono perfetti per chi viene da un lungo inverno europeo e non è raro vedere cieli azzurrissimi stagliarsi persino sopra le dune del deserto. Tuttavia, le escursioni termiche sono evidenti e la sera o la notte si avverte davvero quanta energia ci abbia donato fino a quel momento il sole africano. Ripartiamo consapevoli che presto dovremo tornare in questo paese. Un solo viaggio non è sufficiente a coglierne la bellezza e il fascino, ma serve a iniziare a intuire la complessità delle diverse culture che qui si sono trovate a convivere nel corso dei secoli e di una storia che si perde nei millenni. Non basta a immaginare le trasformazioni già ben visibili della società marocchina, fortemente spinta, o comunque condizionata, da un continuo processo di osmosi con l’Europa occidentale.